Salute

Salute mentale. Il Piano strategico illustrato da Marco D’Alema. La comunità, attore protagonista

"Si deve definitivamente uscire dalla sola cura della patologia grave. L’intervento deve essere più articolato sul territorio. E qui la cooperazione può essere un punto di riferimento".

di Luca Zanfei

Più di un anno di consultazioni. Seicento persone coinvolte tra operatori, volontari e utenti. Ma soprattutto decine di seminari di approfondimento e confronto con le realtà impegnate sul territorio. Fin dalla sua gestazione, il Piano strategico nazionale si è distinto per un forte impulso al dialogo e alla collaborazione tra attori e utenti finali. Un confronto che non finirà con la presentazione alla Regioni: «L?idea è quella di istituire un tavolo programmatico con le istituzioni e le realtà sociali in modo da rendere operative le linee di indirizzo dettate nel Piano», spiega Marco D?Alema, coordinatore della commissione ministeriale che ha redatto il testo di indirizzo. ù
SocialJob: Il Piano sembra trasmettere un messaggio forte: ricreare la comunità per affrancare gradualmente il soggetto dal sistema dei servizi sociali.
Marco D?Alema: Questo testo si fonda su quattro principi fondamentali: l?intervento precoce soprattutto nei casi, sempre più frequenti, di patologie dell?età evolutiva; la presa in carico del contesto e quindi della famiglia; la prevenzione secondaria e infine l?attenzione verso la qualità dell?intervento con la predisposizione di test e strumenti di valutazione e definizione delle metodologie.>
Come si nota, l?applicazione di questi punti non può prescindere da complessi processi di attivazione del territorio. La creazione di una comunità coesa è fondamentale proprio perché l?obiettivo è di considerare la salute non più come assenza di malattia, ma al contrario come creazione di uno stato di benessere.
SJ: Nel testo programmatico si chiama direttamente in causa il terzo settore e la cooperazione nel supportare i servizi sociali, ma soprattutto nel ridefinire i vecchi percorsi di inserimento. Cosa vuol dire questo nella prassi?
D?Alema: Si deve definitivamente uscire dalla sola cura della patologia grave. L?intervento deve essere più articolato sul territorio coinvolgendo le famiglie, i centri sportivi e altri soggetti collegati. Qui la cooperazione può essere un punto di riferimento se abbandona le istanze aziendalistiche per trasformare l?interesse della comunità in un servizio di promozione della soggettività. Può fare da filtro nel coinvolgimento di imprese e sindacati, fondamentali per un?efficace inclusione.
SJ: Proprio nei termini di una nuova inclusione, si incomincia a rilevare l?importanza delle esperienze di auto-impresa e housing sociale. Come si inseriscono nel nuovo programma di intervento?
D?Alema: L?idea è quella di dare impulso al microcredito. Su questo strumento si può puntare molto soprattutto nella promozione dei contesti e culture locali. Per questo stiamo tentando di creare un network nazionale sulle attività della cooperazione intesa come volano di commercializzazione. Ovviamente siamo dell?idea che l?inclusione non sia solamente occupazionale. Il vero superamento dei manicomi è fondato su un nuovo concetto di housing. L?idea è che la residenzialità in comunità ed Rsa venga intesa come a termine e che, quindi, si ragioni prima sulla domiciliarità e poi sulla progressiva indipendenza abitativa dei soggetti. Spazio dunque alle esperienze fatte dal privato sociale, ma anche responsabilizzazione dei Comuni che devono definire vere e proprie politiche per la casa, anche finanziando progetti di housing e di casa famiglia.
SJ: Inserimento, housing e prevenzione sono forme di intervento impiegate da anni ma con risultati non sempre felici. In molti hanno parlato di nuovi modelli di ?manicomialità territoriale?. Qual è la sua opinione?
D?Alema: Queste forme di re-istituzionalizzazione, dove i pazienti rientrano in un circuito parallelo, si sta manifestando in tutt?Europa. In Italia è meno evidente, ma anche qui c?è una concezione di intervento come semplice ?contenimento della crisi?. Questo è dovuto ancora all?idea che la psichiatria è soprattutto un allarme sociale, da affrontare nei termini prettamente organizzativi dei servizi. Nel nostro Paese manca una seria ricerca universitaria in tal senso, che impedisce lo sviluppo di vere politiche di ?public health?. La scarsa valutazione dell?efficacia ed efficienza degli interventi ha creato una contrapposizione tra due tipi di psichiatria: quella accademica e quella sociale. Il punto è quello di promuovere il dialogo tra queste due forme, puntando finalmente su una visione antropologica del disagio mentale.


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